
Di R.C. Sproul.
Il salmista si chiedeva: «Se tu dovessi tener conto delle colpe, o Eterno, chi potrebbe resistere, o Signore?. Si tratta ovviamente di una domanda retorica: la risposta è chiaramente “nessuno”.
La domanda è posta in forma condizionale: si limita a considerare quelle che sarebbero le tragiche conseguenze se il Signore dovesse tener conto delle colpe. Potremmo tirare un sospiro di sollievo dicendo: «Meno male che il Signore non tiene conto delle nostre colpe!».
Ma questa è una falsa speranza. Siamo stati indotti da una serie infinita di bugie a credere di non avere nulla da temere dalla scheda segnapunti di Dio. Possiamo stare certi che se è capace di un qualche giudizio, il suo giudizio sarà clemente e se non superiamo il suo test, non c’è da preoccuparsi, perché egli aggiusta il voto a seconda della media della classe: dopo tutto, si sa, errare è umano e perdonare è divino. Questo assioma è formulato in modo tale che di fatto diamo per scontato che il perdono non sia soltanto un’opzione a disposizione di Dio, ma un vero e proprio prerequisito della natura divina. Pensiamo che non solo Dio possa perdonare, ma che effettivamente perdoni, altrimenti non sarebbe un Dio buono. Con quanta facilità dimentichiamo la prerogativa divina: «Io avrò misericordia di chi avrò misericordia, e avrò compassione di chi avrò compassione» (Rom. 9:15).
Al giorno d’oggi stiamo assistendo all’eclissi del Vangelo, ma l’ombra che ne oscura la luce non è limitata a Roma o al protestantesimo liberale; essa incombe anche all’interno della comunità evangelica. L’espressione stessa “predicare il Vangelo” sta ora a descrivere qualsiasi tipo di predicazione fuorché quella del Vangelo. Il “nuovo” Vangelo non si preoccupa del peccato e non sente un gran bisogno di giustificazione, e di conseguenza accantona senza difficoltà l’imputazione della giustizia di Cristo come una necessità essenziale per la salvezza. Abbiamo sostituito l’“amore incondizionato” di Dio all’imputazione della giustizia di Cristo, perché se Dio ci ama tutti incondizionatamente, chi ha bisogno della giustizia di Cristo?
La realtà è che Dio tiene conto delle colpe e manifesta la sua ira contro il peccato. Prima di spiegare le ricchezze del Vangelo nella sua epistola ai Romani, l’apostolo Paolo pone la base per la necessità di quel Vangelo dichiarando: «Perché l’ira di Dio si rivela dal cielo sopra ogni empietà e ingiustizia degli uomini» (Rom. 1:18).
Questo testo afferma una rivelazione reale dell’ira reale di un Dio reale contro l’empietà e l’ingiustizia reali di uomini reali e nessun appello a qualche idea immaginaria dell’amore incondizionato di Dio è in grado di ammorbidire queste realtà.
Il dilemma umano è questo: Dio è santo e noi non lo siamo; Dio è giusto e noi no. Certo, nella nostra cultura si ammette apertamente che “nessuno è perfetto”: anche il più ottimista degli umanisti riconosce che l’umanità è guasta, ma nel complesso…ah, qui sta il problema. Come i musulmani, supponiamo che Dio ci giudicherà nel complesso: se le nostre buone azioni superano quelle cattive, arriveremo sani e salvi in paradiso, ma ahimè, se le nostre cattive azioni superano quelle buone subiremo l’ira di Dio all’inferno. Possiamo essere “guastati” dal peccato, ma non siamo affatto devastati da esso: abbiamo ancora la capacità di controbilanciare i nostri peccati con la nostra giustizia. Questa è la menzogna più mostruosa di tutte. Non soltanto rivendichiamo tale giustizia, ma facciamo affidamento su tale giustizia che, di fatto, non esiste. La nostra giustizia è un mito, ma un mito tutt’altro che innocuo: niente è più pericoloso che per una persona ingiusta fondare la propria speranza per il futuro su un’illusione.
Era per contrastare tale illusione che Paolo, citando il salmista, sottolineava: «Non c’è alcun giusto, neppure uno. Non c’è alcuno che abbia intendimento, non c’è alcuno che ricerchi Dio. Tutti si sono sviati, tutti quanti sono divenuti inutili; non c’è alcuno che faccia il bene, neppure uno» (Rom. 3:9-12).
Ciò che non costituisce nemmeno quattro versetti del Nuovo Testamento è così radicale che se la chiesa moderna iniziasse a crederlo, assisteremmo a un risveglio che farebbe impallidire la Riforma; ma la chiesa di oggi non crede nel messaggio fondamentale di questi versetti, «Non c’è alcun giusto, neppure uno».
Al di fuori di Gesù non vi è un singolo essere umano, senza eccezione, che sia giusto. Non vi è nessuna persona non rigenerata che capisca Dio.
Cercare Dio? Abbiamo completamente revisionato l’adorazione corporata per essere sensibili nei confronti di coloro che “cercano” Dio, ma se il culto dovesse essere fatto su misura per coloro che cercano Dio, sarebbe rivolto esclusivamente ai credenti, perché nessuno tranne i credenti cerca mai Dio.
Ogni persona si allontana da Dio e tutti diventano inutili in materie spirituali: di fondo non vi è nessuno che faccia il bene, no, nessuno.
Il bene è un concetto relativo, nel senso che è definito in relazione a un determinato metro di riferimento. Se siamo noi a stabilire quale sia quel metro di riferimento, possiamo congratularci con noi stessi e trovare conforto nel suo raggiungimento da parte nostra; ma se Dio stabilisce il metro di riferimento, e il suo metro di riferimento include il comportamento esteriore (che le nostre azioni si conformino perfettamente alla sua legge) e la motivazione interiore (che tutte le nostre azioni procedano da un cuore che lo ama perfettamente), allora capiamo subito che la nostra presunta “bontà” non è affatto tale e comprendiamo cosa avesse in mente Agostino quando disse che le opere migliori dell’uomo non sono altro che “splendidi vizi”.
E allora? L’equazione è semplice. Se Dio richiede una giustizia e una santità perfette per sopravvivere al suo perfetto giudizio, ci troviamo di fronte a un serio problema: o riponiamo la nostra speranza nella nostra giustizia, che è completamente inadeguata, o ci rifugiamo nella giustizia di un altro, una giustizia altrui, che non ha origine in noi. L’unico posto in cui possiamo trovare questa perfetta giustizia è in Cristo: questa è la buona notizia del Vangelo. Se accantoniamo questo elemento di una giustizia altrui che Dio ci “mette in conto” o “imputa”, non abbiamo più il Vangelo biblico: senza l’imputazione, il Vangelo diventa “un altro vangelo” che non offre nient’altro che l’anatema di Dio.
Con la giustizia di Cristo che ci è promessa per fede, abbiamo la speranza della nostra salvezza ed entriamo a far parte del numero di quei beati ai quali il Signore non imputa il peccato (Rom. 4:8).
Fonte:
None Righteous, Copyright 2004, da R.C. Sproul. Ligonier Ministries.
Con permesso tradotto da A.P.