
di Richard B. Gaffin, Jr.
La Confessione di fede di Westminster, insistendo sul fatto che la Scrittura è sufficiente ai nostri giorni, afferma che «quelle forme in cui Dio rivelava in precedenza la Sua volontà al Suo popolo» sono «ora cessate» (1.1): così, noi che aderiamo a questo insegnamento siamo spesso chiamati “cessazionisti”. Questa etichetta porta con sé un bagaglio non indifferente, che di per sé può essere negativo; ma nei dibattiti attuali sui doni dello Spirito Santo, questa etichetta suggerisce ciò a cui si è contrari. Anzitutto, dobbiamo allora correggere alcuni fraintendimenti riguardo il “cessazionismo”.
Noi non affermiamo che lo Spirito di Dio non stia più operando attivamente in modi dinamici e straordinari: crediamo sinceramente che lo faccia tuttora. Che cosa, ad esempio, può essere più potente e impressionante—persino miracoloso!—di un’inversione di centottanta gradi che si verifica quando lo Spirito trasforma coloro che sono morti nei loro peccati in creature spiritualmente vive affinché compiano le buone opere? Questo non implica niente di meno di un’opera di risurrezione o (ri)creazione (Efesini 2:1-10), qualcosa di davvero straordinario!
Né crediamo che tutti i doni dello Spirito siano cessati e non siano più presenti nella chiesa: ciò di cui stiamo parlando è la cessazione di un numero limitato di doni, e la continuazione del resto dei doni spirituali non è in discussione. A volte mi sento dire di stare mettendo lo Spirito Santo in una scatola, ma ci sono almeno due risposte che mi vengono in mente. Anzitutto, questa è un’accusa che prendo molto sul serio: non è affatto un pericolo illusorio limitare ingiustamente le nostre aspettative sull’opera dello Spirito con la nostra teologia. Dobbiamo sempre ricordare il fattore dell’imprevedibilità che Gesù fa notare in Giovanni 3:8 (lo Spirito è come un vento imprevedibile) e ogni sana dottrina dell’opera dello Spirito Santo accetterà un suo aspetto misterioso.
In secondo luogo, però, come cercherò di dimostrare, lo stesso Spirito Santo «che parla nella Scrittura» (Confessione di Fede di Westminster 1.10), mette la propria opera “in una scatola”, per così dire: una scatola che ha sovranamente creato. La Bibbia non parla mai di una presunta capricciosità dello Spirito: lo Spirito è davvero lo Spirito fervente, ma è anche ugualmente lo Spirito di ordine (1 Corinzi 14:33, 40). È sorprendente che la Scrittura sottolinei particolarmente l’ordine in una discussione sui doni spirituali! Una sfida perenne per la chiesa è la ricerca di questo ardore ordinato o, se preferite, l’ordine dello Spirito infuso nel suo fervore.
Prima la fondazione, poi la costruzione della struttura
Secondo il Credo di Nicea, la chiesa “una santa cattolica” è anche “apostolica”. Cosa significa? In cosa consiste l’apostolicità della chiesa?
Ottenere una risposta biblica a questa domanda rappresenta il primo passo per giungere alla conclusione che la Parola di Dio insegna che certi doni dello Spirito hanno effettivamente adempiuto il loro scopo e sono cessati. Efesini 2:11-22 fornisce una delle immagini più complete della chiesa del Nuovo Testamento di tutti gli scritti di Paolo o, se vogliamo metterla in questi termini, di tutta la Scrittura.
Usando una metafora assai comune nelle Scritture (cfr. 1 Pietro 2:4-8), Paolo dice che la chiesa, composta ora da gentili alla pari che ebrei, è il grande progetto di costruzione che Dio, il maestro architetto e costruttore, sta realizzando nel periodo che va dall’esaltazione di Cristo al suo ritorno. La chiesa è la «famiglia di Dio. Siete stati edificati sul fondamento degli apostoli e dei profeti, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare» (Efesini 2:19-20).
Due considerazioni strettamente correlate sono degne di nota in questa descrizione.
Prima di tutto, osservate come le fondamenta siano state finite: sono un’entità storicamente completata. Quando un costruttore sa cosa sta facendo (come possiamo supporre nel caso di Dio!), pone le fondamenta una volta per tutte all’inizio del progetto. Le fondamenta non hanno bisogno di essere poste più volte: una volta poste, si costruisce la struttura su quella base. Dal nostro punto di vista attuale, ci troviamo nel periodo della costruzione del resto della struttura: Cristo ha posto le fondamenta della sua chiesa, e ora sta costruendo su di esse.
In secondo luogo, questa conclusione è rafforzata quando andiamo a vedere esattamente in che modo gli apostoli e i profeti, insieme a Cristo, sono il fondamento della chiesa. Quanto a Cristo, facciamo riferimento alla sua opera salvifica con la sua crocifissione e risurrezione: «nessuno può porre altro fondamento oltre a quello già posto, cioè Cristo Gesù» (1 Corinzi 3:11, cfr. 1 Corinzi 15:3-4). Ma anche gli apostoli appartengono alla fondazione, non perché l’opera salvifica di Cristo sia in qualche modo incompleta, quanto piuttosto a causa della loro testimonianza, in virtù della quale sono testimoni—autorizzati dallo stesso Cristo esaltato—come strumenti della rivelazione (ad es. Atti 1:22; Galati 1:1; 1 Tessalonicesi 2:13).
Il ruolo unico degli apostoli nel piano di salvezza di Dio nella storia viene alla luce nel testo di Efesini 2:20, in cui troviamo una correlazione attraverso tutta la storia della salvezza fino alla sua consumazione in Cristo (cfr. Ebrei 1:1-2): la Parola di Dio si concentra sulle azioni di Dio. Le cose stanno dunque così: all’opera fondamentale compiuta una volta per tutte da Cristo, Dio collega la testimonianza apostolica che è fondamentale, cioè compiuta una volta per tutte e conclusa.
La Parola di Dio si concentra sulle azioni di Dio, e questa è la ragione per cui emersero i libri del Nuovo Testamento. Efesini 2:20 indica così che gli apostoli avevano un ruolo temporaneo, non continuativo, nella vita della chiesa, relegato all’importante fase storica della fondazione della chiesa.
La loro funzione era quella di fornire una testimonianza rivelatoria, infallibilmente autorevole e canonica dell’adempimento della storia della salvezza nell’opera compiuta di Cristo, e questa funzione è stata compiuta perfettamente. Non è qualcosa che appartiene al periodo successivo di costruzione della struttura: gli apostoli fornirono piuttosto le fondamenta complete e necessarie su cui Cristo continua a costruire la struttura della chiesa.
Altri passaggi del Nuovo Testamento confermano che la carica di apostolo era temporanea. Affinché qualcuno potesse essere un apostolo, doveva essere un testimone oculare di Cristo prima della sua ascensione (Atti 1:21-26). Paolo—in 1 Corinzi 15:7-9 (cfr. 1 Corinzi 9:1)—si considerava un’eccezione a questo requisito, e con questo sembra chiaramente affermare di essere l’ultimo degli apostoli.
Le epistole pastorali si occupavano in gran parte della preparazione apostolica per il futuro della chiesa dopo l’età degli apostoli. Due di queste lettere sono indirizzate a Timoteo, che Paolo vedeva, più di chiunque altro nel Nuovo Testamento, come suo successore personale; eppure Paolo non lo chiama mai un apostolo. Alla luce della logica storica e redentiva già osservata, la “successione apostolica” in senso personale è una contraddizione di termini.
L’apostolicità della chiesa non è assicurata da una successione ininterrotta di funzionari che può essere fatta risalire agli apostoli, ma consiste piuttosto nella costante fedeltà all’insegnamento o alla tradizione degli apostoli (2 Tessalonicesi 2:15) così come è stata messa per iscritto nel Nuovo Testamento.
Molti appartenenti al movimento carismatico concordano sul fatto che gli apostoli—nel senso di coloro che sono “i primi” tra i doni dati alla chiesa (1 Corinzi 12:28; Efesini 4:11), come i dodici e Paolo—non sono presenti nella chiesa di oggi: almeno in questo senso, che se ne rendano conto o meno, la grande maggioranza dei carismatici contemporanei sono di fatto “cessazionisti”.
Chiunque riconosca la natura temporanea del ministero apostolico deve riflettere, alla luce di altri insegnamenti del Nuovo Testamento, su quali possano essere le ulteriori implicazioni di questa posizione di base cessazionista.
Che dire della profezia?
Efesini 2:20 contiene un importante esempio di queste implicazioni. Il testo afferma che i profeti, insieme agli apostoli, hanno un ruolo fondamentale. Chi sono questi profeti? Chiaramente, non sono i profeti dell’Antico Testamento. Prima di tutto, si noti l’ordine delle parole: «apostoli e profeti», non «profeti e apostoli». Ma, cosa ancora più importante, solo pochi versi più avanti e con parole quasi identiche, si dice che i profeti in questione appartengono all’«ora» della nuova alleanza, in contrasto con le «altre epoche» della storia passata (Efesini 3:5).
Alcuni hanno recentemente sostenuto che questi profeti corrispondano agli apostoli (nel senso di “gli apostoli che sono anche profeti”), ma questa visione è difficilmente plausibile alla luce del successivo riferimento di Paolo agli apostoli e ai profeti (Efesini 4:11: «alcuni come apostoli, altri come profeti»). Efesini 2:20 implica chiaramente che la profezia fosse un dono temporaneo, dato per il periodo storico della fondazione della chiesa: così, come anche gli apostoli, i profeti del Nuovo Testamento non sono più una parte presente della vita della chiesa.
Che dire del dono delle lingue?
1 Corinzi 14 tratta del dono della profezia e delle lingue in modo molto più dettagliato di qualsiasi altro passaggio del Nuovo Testamento. Una rapida lettura ci mostrerà che l’intero capitolo è strutturato come un contrasto tra la profezia e le lingue, a partire dai versetti 2-3 e per tutto il resto del capitolo, fino al versetto 39. L’intento dell’argomentazione dell’apostolo è di mostrare la relativa superiorità o preferibilità della profezia rispetto alle lingue: la profezia è «maggiore» perché consiste in parole comprensibili agli altri ed edifica la chiesa, mentre le lingue, incomprensibili agli altri, non hanno questo effetto.
La condizione immediata, però, è che quando le lingue sono interpretate, sono sullo stesso piano della profezia per l’edificazione degli altri (cfr. 1 Corinzi 14:4-5), mentre quando non sono interpretate, sono offuscate dalla profezia: ma le lingue interpretate sono funzionalmente equivalenti alla profezia. Così la Parola di Dio mette in relazione la profezia e le lingue: potremmo anche dire che le lingue, in quanto interpretabili e da interpretare (cfr. 1 Corinzi 14:13, 27), sono una forma di profezia.
Ciò che questi due doni hanno in comune e il motivo per cui possono essere contrastati in questo modo è che entrambi sono doni verbali: nello specifico, entrambi sono doni rivelatori. Entrambi portano la Parola di Dio alla chiesa in senso originario, immediato e non derivato. Il versetto 30 afferma esplicitamente che la profezia è rivelazione, come è anche chiaro, tra altre considerazioni, dagli unici esempi di profezia nel Nuovo Testamento, quello di Agabo (ved. Atti 11:27-28; Atti 21:10-11) e il libro dell’Apocalisse (ved. Apocalisse 1:1-3).
Che il dono delle lingue sia rivelatorio è evidente dai versetti 14-19: si tratta di parole ispirate del tipo più immediato, anzi, pressoché non mediato affatto. Nel loro esercizio, le lingue ignorano completamente la “mente”, nel senso che l’intelletto di colui che le parla non produce ciò che viene detto: lo Spirito Santo si impadronisce della capacità di parlare e degli organi, così che le parole pronunciate non sono in alcun senso le parole di chi parla.
Inoltre, parlando del loro contenuto come “misteri” (1 Corinzi 14:2), Paolo conferma il carattere completamente rivelatorio delle lingue (così come il loro legame con la profezia, si veda 1 Corinzi 13:2): altrove nel Nuovo Testamento, almeno senza chiare eccezioni, questa parola fa sempre riferimento alla rivelazione—più specificamente, al contenuto storico redentivo della rivelazione (ad es. Matteo 13:11, Romani 16:25-26; 1 Timoteo 3:16).
Da quei passaggi che sono più pertinenti e decisivi emerge una spiegazione fondamentale per la cessazione della profezia e delle lingue. Per il saggio e grazioso disegno di Dio, apostoli e profeti hanno avuto un ruolo temporaneo nella storia della chiesa e non sono continuati una volta poste le sue fondamenta. Le “specifiche” storico-redentive della casa-chiesa di Dio sono tali che apostoli e profeti non ne sono elementi permanenti (cfr. Efesini 2:20) e tanto meno le lingue, dal momento che sono legate, come abbiamo visto, alla profezia (cfr. 1 Corinzi 14): anch’esse sono cessate nella vita della chiesa con la morte degli apostoli e dei profeti (e degli altri modi di portare la Parola di Dio).
Che dire di 1 Corinzi 13:8-13?
Molti, tuttavia, ritengono che 1 Corinzi 13:8-13 insegni chiaramente che la profezia e le lingue non cesseranno fino alla seconda venuta di Cristo: per loro, questo è un testo inattaccabile che risolve da solo il problema. Ma questo passaggio prova davvero le loro conclusioni in materia?
Guardando attentamente a 1 Corinzi 13:8-13, si noti come il suo scopo principale sia quello di contrastare la conoscenza presente del credente con quella futura. La sua conoscenza presente è parziale e oscura (cfr. 1 Corinzi 13:8-9), al contrario di quella completa descritta con l’espressione «faccia a faccia» che sarà nostra (cfr. 1 Corinzi 13:12) con l’arrivo della «perfezione» o della conoscenza perfetta (cfr. 1 Corinzi 13:10). Questa “perfezione” arriverà quasi certamente quando Cristo ritornerà in potenza e gloria – ma questo significa che questi doni non cesseranno fino alla sua seconda venuta?
Questa conclusione si spinge ben oltre lo scopo di questo testo. Ciò che questo testo vuole enfatizzare è il carattere della nostra conoscenza attuale, in particolare la sua incompletezza: i mezzi specifici attraverso i quali abbiamo questa conoscenza non sono il punto cruciale. La preoccupazione di Paolo era chiaramente di tipo pastorale e relativa al corretto esercizio della profezia e delle lingue nella chiesa di Corinto (cfr. 1 Corinzi 12-14), per cui è comprensibile che le menzioni in questo contesto: tuttavia, non stava affrontando il problema di quando sarebbero cessate, ma piuttosto sottolineando il carattere parziale e opaco di tutta la nostra conoscenza fino al ritorno di Cristo. Questo è vero indipendentemente dai mezzi rivelatori attraverso i quali ci giunge questa conoscenza (inclusa, implicitamente, anche la sua trascrizione) e da quando tali mezzi cessino o meno.
Efesini 4:11-13 rinforza questa interpretazione. Il Cristo esaltato «ha dato alcuni come apostoli, altri come profeti, […] fino a che tutti giungiamo all’unità della fede […] allo stato di uomini fatti [o maturi], all’altezza della statura perfetta di Cristo». Quasi certamente l’”unità” e la “statura perfetta” del versetto 13 sono la stessa cosa della “perfezione” in 1 Corinzi 13:10; è possibile che Efesini 4:13 faccia eco a 1 Corinzi 13:10 attraverso l’uso della parola “perfetta” o “maturi”. Questa è la situazione che Cristo porterà al suo ritorno. Stando così le cose, se leggiamo Efesini 4 nel modo in cui i non cessazionisti insistono che leggiamo 1 Corinzi 13, non possiamo che concludere che ci saranno apostoli, come anche profezie e lingue, fino alla seconda venuta di Cristo; ma anche molti non cessazionisti respingono giustamente questa conclusione.
Ma come possono farlo in maniera coerente? In merito ai doni, in relazione all’obiettivo finale in vista, in che modo questo passaggio si differenzia da 1 Corinzi 13:8-13? I non cessazionisti che correttamente riconoscono che oggi non ci sono apostoli nel senso di Efesini 2:20 ed Efesini 4:11 non possono allo stesso tempo affermare la continuazione dei doni in questione.
Se questi passaggi insegnano che la profezia, i profeti e le lingue continuano fino alla seconda venuta di Gesù Cristo, allora insegnano anche che gli apostoli continuano fino a essa; ma è più corretto riconoscere che questi passaggi non affrontano affatto la questione se la profezia o le lingue (o qualsiasi altro dono) cesseranno prima della seconda venuta di Cristo, lasciando così la domanda aperta e da risolvere con altri passaggi biblici.
I non cessazionisti si trovano così davanti a un dilemma.
Se la profezia e le lingue (con la funzione che svolgono nel Nuovo Testamento) continuano al giorno d’oggi, allora i non cessazionisti devono confrontarsi con l’implicazione alquanto pratica e problematica che la sola Scrittura non è una rivelazione verbale sufficiente da parte di Dio: nel migliore dei casi, il canone è relativamente chiuso. In alternativa, se—come insiste la maggior parte dei non cessazionisti—la ”profezia” e le “lingue” contemporanee non hanno un carattere rivelatorio o non sono completamente rivelatorie, allora questi fenomeni contemporanei sono così chiamati a sproposito, trattandosi di qualcosa di diverso dai doni della profezia e delle lingue che troviamo nel Nuovo Testamento.
I non cessazionisti cadono in una sorta di anacronismo storico-redentivo. Essi cercano nella fase di costruzione della struttura della storia della chiesa qualcosa che apparteneva alla sua fase di fondazione, e sono assorbiti dal tentativo contraddittorio di sostenere che il canone del Nuovo Testamento sia completo e chiuso e tuttavia allo stesso tempo che i doni rivelatori propri del periodo in cui il canone era ancora aperto—i doni per quando i documenti del Nuovo Testamento erano ancora in fase di scrittura—continuino.
Ma la Parola di Dio ci aiuta a risolvere questo dilemma, mostrandoci che, per il saggio e grazioso disegno di Dio, la profezia e le lingue hanno completato il loro compito e sono cessate, e ciò che rimane, con suprema e totale sufficienza e autorevolezza fino alla venuta di Gesù, è «lo Spirito Santo che parla nella Scrittura» (Confessione di Fede di Westminster 1:10).
Testo originale: https://opc.org/new_horizons/NH02/01d.html
L’autore, un ministro della OPC, è professore di teologia biblica e sistematica al Seminario teologico di Westminster a Philadelphia. Questo articolo è stato adattato, con il permesso dell’Alliance of Confessing Evangelicals, 1716 Spruce Street, Philadelphia, PA 19103, rispetto ad uno che era già stato pubblicato nel Modern Reformation. Ristampato da New Horizons, Gennaio 2002.
Traduzione di Andrea Lavagna. Rivisto da A.P.
Soli Deo Gloria!